Immagine di copertina generata da Microsoft Copilot Designer con tecnologia OpenAI Dall-E 3

di Mirko Rocci

Ruolo delle reti sociali interpersonali e gestione della zona comfort nei percorsi di eccellenza

“Noi siamo ciò che facciamo ripetutamente. L’eccellenza, dunque, non è un atto, ma un’abitudine”. È questa una delle più celebri massime formulate dal filosofo greco Aristotele ben tre secoli prima della nascita di Cristo.

Va da sé che definire un percorso di eccellenza non è compito semplice e ogni sua descrizione chiusa non potrebbe mai essere considerata univoca, precisamente come quella di Aristotele. Questo concetto è fortemente dipendente dal contesto sociale, dal momento storico e dalle sensibilità e percezioni specifiche del singolo individuo. In altre parole, se immaginassimo di clonare noi stessi e ipotizzassimo di operare una traslazione spazio-temporale di una delle due figure, e finalmente chiedessimo ad entrambi i cloni di fornire una definizione di “percorso di eccellenza”, saremmo praticamente certi di ottenere due risposte piuttosto dissimili, o persino completamente incongruenti, nonostante l’identicità dei due patrimoni genetici.

Due settimane fa riflettevo approfonditamente su questo aspetto durante la messa in onda in TV di un documentario sulla vita nella steppa della lontana Mongolia. Il documentario narra la storia di un dodicenne, già considerato uomo per quella cultura, il quale descrive con fierezza ed orgoglio la propria passione per una particolare corsa con i cavalli che si tiene annualmente nella sua regione, in cui possono prendere parte bambini fino ai nove o dieci anni. Non ricordo se fosse previsto o meno un limite di età formale, ma ciò che realmente conta in quel contesto, oltre alle necessarie abilità, sono una massa corporea e una statura ridotte del fantino in modo da consentire al cavallo di quella particolare razza, unica ammessa alla gara, di correre più veloce degli altri e tagliare per primo il traguardo. A causa delle citate limitazioni fisico-anagrafiche, il giovane dodicenne era già da tempo fuori dai giochi. Egli raccontava della scelta del cavallo che lo aveva accompagnato sin dalla tenera età di cinque anni, la cura e le sofferenze per l’accudimento dell’animale, la sua custodia, gli infortuni, le ristrettezze economiche, gli allenamenti intensi prima e dopo la scuola. Dalle sue parole traspariva la sua coriacea determinazione e quanto avesse sognato di vincere quella gara, senza riuscire a nascondere la sua profonda delusione per aver dovuto cedere definitivamente senza esserci mai riuscito, nonostante il talento e gli ottimi e costanti risultati. Conosciuto e stimatissimo nella sua piccola comunità per le capacità di preparare i migliori cavalli della sua regione, quello di Mayeh è stato senza dubbio un percorso di eccellenza, che però non si è mai concretizzato in quello che per la sua cultura è socialmente considerato un successo formale. Morale del racconto: percorso di eccellenza non implica il successo. E lo stesso vale per il viceversa.

Con un modesto sforzo empatico è certamente possibile comprendere il cuore e la mente di Mayeh, ma condividere le aspirazioni e percezioni del giovane mongolo e pretendere di riportarle alla nostra realtà occidentale sarebbe una inutile ed insensata impresa. Nemmeno a dirlo, nessun bambino occidentale né preadolescente di oggi – e nemmeno di ieri – penserebbe di dedicare la propria vita per spendere le proprie lacrime e sacrifici con il fine ultimo di prepararsi per una sconosciuta corsa di cavalli in una steppa sperduta che non è minimamente percepita come gloriosa o prestigiosa dalle nostre parti. Tuttavia, l’utilità di questo esercizio risiede nell’accompagnare il lettore nella visualizzazione plastica della soggettività dei percorsi di eccellenza e della vastità delle declinazioni dell’idea di successo.

La breve storia di Mayeh consente, in questa particolare occasione, di argomentare e spiegare in maniera fruibile la peculiarità di due delle variabili identificate come trasversali, comuni e caratterizzanti di tutti i percorsi di eccellenza, e che sono interessanti in quanto completamente indipendenti dalla cultura e dalle origine e soggettività della visione di successo: le reti sociali interpersonali e la zona di comfort.

Reti Sociali Interpersonali

Per reti sociali interpersonali si intende il concetto generale di networking, ovvero il complesso dei legami e relazioni che un individuo sviluppa nel corso della propria vita. Il networking è dunque rappresentato da quel peculiare ecosistema unico di amici, familiari, colleghi e conoscenti che, a vario titolo, forme e momenti diversi, forniscono sostegno e supporto sociale, morale, economico e professionale. La qualità e l’estensione della propria rete sociale è generalmente determinante per la definizione e l’impostazione del proprio percorso di vita nella sua visione più globale. Uno dei benefici più importanti delle reti sociali interpersonali è il supporto emotivo. Avere persone di fiducia e mentori con cui confrontarsi ed eventualmente su aspetto che può determinare un importante grado di sicurezza che risulta utile per affrontare le sfide e per perseverare nei propri obiettivi in maniera mirata e determinata [1].

Immagine  generata da Microsoft Copilot Designer con tecnologia OpenAI Dall-E 3

Uno degli aspetti più peculiari è la natura dinamica del networking. È chiaro ed inconfutabile in linea generale che a nessun individuo è dato scegliere familiari, vicini di casa e buona parte dei colleghi incontrati durante la vita. Tuttavia, ciò non proibisce di indirizzare e modulare con intelligenza l’intensità delle relazioni che ognuno di noi stabilisce con tali persone. Questo, di fatto, lo facciamo di continuo ed in maniera naturale. Già dalle semplici simpatie e antipatie induciamo inconsapevolmente un notevole condizionamento del rapporto che instauriamo con le persone che ci circondano, modificando positivamente o negativamente l’evoluzione. Poi ci sono tutte quelle relazioni interpersonali che sta a noi decidere noi di coltivare o lasciar cadere. E lo facciamo quotidianamente, spesso senza esserne del tutto coscienti. Inviare un augurio di compleanno a quella vecchia conoscenza fatta per caso sul battello turistico di Sirmione sul lago di Garda, condividere un aperitivo con una collega che ha lasciato il posto di lavoro per dedicarsi alla passione per la pittura [2]. Sembrano banali, ma spesso sono queste piccole cure che, poste in essere in maniera consapevole, potrebbero un giorno rivelarsi chiave e marcare la differenza. Si badi bene, il presente non è un invito alla gestione avida ed interessata delle reti sociali, bensì un monito all’approccio karmico della visualizzazione interiore del fenomeno. Creando una rete sociale interpersonale di livello e dedicandosi, nei limiti delle possibilità, alla sua cura genuina e sincera senza aspettarsi nulla in cambio, nel corso del tempo è lecito pensare di scoprire che ciò che si è dato di se stessi in maniera sinceramente disinteressata in qualche modo tornerà indietro, spesso moltiplicato per se stesso, in forme diverse e persino da persone lontane da quelle che sono state aiutato in modo esplicito.

Quanto espresso riflette precisamente una delle peculiarità di Mayeh, ovvero quella di aver stabilito delle relazioni sociali di sostanza all’interno della propria comunità che lo hanno reso in grado di procurarsi i migliori equini del Paese per quella determinata tipologia di gare, i più avanzati equipaggiamenti e supporti sociali e logistici che, anche se per diversi fattori non lo hanno visto raggiungere la sua agognata vittoria, hanno comunque contribuito a farlo diventare un riferimento importante per la sua gente, rendendo le sue gesta quotidiane un’abitudine. E questa è stata la base essenziale per la determinazione del proprio percorso di eccellenza del rinomato fantino.

Zona di Comfort

Il secondo elemento che ritroviamo in tutti percorsi di eccellenza, indipendentemente dai connotati specifici degli stessi, è la zona di comfort. Essa rappresenta quel particolare contesto psicologico in cui ognuno di noi si sente a proprio agio, sicuro e privo di stress. La zona di comfort è identificabile come un’area di routine dove ogni soggetto vive di conoscenze e competenze previamente acquisite, collaudate e ben sedimentate, in cui ci si sente protetti e dove si è esenti da sfide più  o meno significative che richiedano un qualsiasi tipo di sforzo.

Quando si prova ad uscire da tale configurazione di relax generalmente si sperimentano diverse emozioni primordiali, prima fra tutte la paura. Superando questa prima fase critica si entra nella zona di apprendimento che, una volta sedimentato nel tempo, si trasforma in zona di crescita. E una crescita acquisita altro non è che una estensione proporzionale della zona di comfort originaria. Tale processo si applica in tutte le sfere della vita, da quella emotiva a quella lavorativa, passando per quella sentimentale [3,4].

Partendo dal concetto appena espresso è piuttosto immediato comprendere come i percorsi di eccellenza possano essere interpretati come una catena di continui di ampliamenti della propria zona di comfort, che portano ad accrescere la stessa in maniera virtuosa e considerevole. È questa sintesi che consente finalmente di collegare induttivamente questa interpretazione dei percorsi di eccellenza al concetto espresso da Aristotele all’inizio del presente articolo: noi siamo l’insieme delle nostre abitudini, e le nostre abitudini non sono altro che lo specchio della nostra zona di comfort. Quando quest’ultima raggiunge una determinata “massa critica” rispetto al resto delle persone che ci circondano in un qualsivoglia contesto, sia esso socio-culturale, lavorativo o sportivo, è lì che statisticamente ogni singolo atto scaturito da abitudini innate o acquisite raggiunge  una elevata probabilità di dare luogo a fatti percepiti dai più come eccellenti.

In altri termini, un percorso di eccellenza, è sintetizzabile, in prima battuta, come uno ampliamento continuo di zone di comfort che permetta di rendere naturali comportamenti ritenuti straordinari per il resto della platea.

Tuttavia, rimane un fatto fondamentale da considerare: come essere umani non possiamo non considerare la nostra natura di animali sociali, quindi necessariamente interagenti. Pertanto, il superamento della nostra zona di comfort non può avvenire in alcun modo senza un confronto costante con il mondo esterno.

E’ pertanto ragionevole completare la sintesi affermando che i percorsi di eccellenza, sia personali che professionali, sono il risultato di una convoluzione alchemica fra allargamento di zone di comfort e gestione mirata ed efficace della propria rete sociale.

In conclusione, questo breve viaggio ci ha condotti attraverso le complesse ragioni alla base della soggettività personale e culturale che caratterizza i percorsi di eccellenza, il concetto di successo e la centralità della loro contestualizzazione. Abbiamo altresì esaminato l’esistenza di due elementi determinanti che, indipendentemente dalle culture e dalle percezioni individuali, emergono in ogni forma di eccellenza: il ruolo fondamentale delle reti sociali interpersonali e l’espansione continua della propria zona di comfort. “E’ necessaria tutta la vita per diventare quello che sei“, afferma un anonimo pensatore. Spesso ignoriamo la complessità della nostra essenza. È proprio per questo che l’inizio consapevole dell’esplorazione dei concetti appena discussi permette a ciascuno di noi di scoprire con sorprendente anticipo la straordinarietà del nostro essere, verso cui ci tenderemo asintoticamente per il resto della nostra vita.

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Riferimenti

  1. Bert N. Uchino, “Social support and physical health: Understanding the health consequences of relationships”, Yale university press, 2004.
  2. Mark S. Granovetter, “The strength of weak ties“, American journal of sociology 78.6 (1973): 1360-1380.
  3. Susan Jeffers, “Feel the fear and do it anyway”, Vermilion, 2007..
  4. Shawn Achor, “The happiness advantage: The seven principles of positive psychology that fuel success and performance at work”, Virgin, 2011.

Mirko Rocci

Mirko Rocci è un fisico sperimentale esperto di nanotecnologie con importanti esperienze internazionali presso alcune delle più prestigiose istituzioni universitarie e di ricerca. Ha iniziato la sua carriera di ricerca nel 2008 tramite programmi di mobilità Erasmus ed Erasmus-Placement presso l’Università Complutense di Madrid, l’Istituto di Scienza dei Materiali di Madrid (ICMM-CSIC) e l’Università dell’Aquila. Nel gennaio 2016, ha conseguito il dottorato in Fisica della Materia Condensata presso l’Università Complutense di Madrid e ha proseguito le sue ricerche nel campo del Trasporto Quantistico e Superconduttività presso la Scuola Normale Superiore. Successivamente, ha svolto ricerche post-dottorato in Spintronica Superconduttiva al Massachusetts Institute of Technology (MIT). Dal 2018 al 2021, ha guidato il progetto EuSuper, una Marie Skłodowska-Curie Global Fellowship, in collaborazione con MIT e NEST Istituto Nanoscienze-CNR. Attualmente, lavora presso il Dipartimento di Tecnologie dello stabilimento di Thales Alenia Space di L’Aquila. Nel tempo libero si dedica all’organizzazione di eventi culturali e attività formative per l’Associazione Culturale Residenti nei Centri Storici 3:33, di cui è fondatore e presidente..

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