di Matteo Caporale

Cosa possiamo imparare da un evento senza precedenti come il lockdown globale per migliorare il
modo in cui lavoriamo?

C’è poca letteratura in merito, ed è stata scritta in tempi diversi ormai – il tema delle modalità di
lavoro e del lavoro smart, in particolare, è sempre stato lasciato indietro rispetto alle priorità del
mercato e alle logiche statiche delle aziende – ma l’esperienza attuale ci costringe a ripensarci in
fretta. Ancora di più ci suggerisce che il lavoro “non di linea” è andato avanti lo stesso e, nella
maggior parte dei casi, si è scoperto più efficace rispetto alle vecchie modalità: quelle che prima
erano calls vuote e spesso non necessarie sono diventate l’unico strumento di lavoro, si sono
trasformate in tempo denso e produttivo.
È evidente che non si possa più tornare indietro: a fronte di condizioni fino a tre mesi fa
considerate estreme, le storiche motivazioni da HR non reggono più, se pensiamo alle regole note
e comunemente accettate. Si è fatta esperienza di una produttività invariata, che ha ignorato gli
schemi fin ora ritenuti intoccabili.
Ma siamo sicuri che andràtuttobene? Siamo così certi di poter assorbire un cambiamento di tale
portata tanto in fretta? Le organizzazioni, che sono più orientate al controllo e che fino a ora sono
state restie a concedere fiducia e libertà, hanno strumenti e leader adeguati per gestire questa
trasformazione sul medio-lungo periodo?
No, non ne siamo sicuri.
L’eccezionalità del momento ci ha portato a un impegno e a una dedizione fuori dalla norma,
spingendoci a un carico di lavoro francamente insostenibile a regime: un impegno fatto di
iperconnettività, di lunghe giornate, postazioni e strumenti di lavoro non adeguati.
Molte attività, inoltre, sono pensate da anni per esser svolte in presenza, sono costruite attorno a
strumenti che necessitano della interazione fisica, personale, di linguaggio non verbale, di spazi
condivisi, di output reali. Una transizione non impossibile, ma complessa.
E che dire poi della vita delle città, plasmata da decenni attorno al fulcro rappresentato da uffici e
aziende? Un micro mondo sociale ed economico forse da ridisegnare.
Non ultimo, la cultura delle organizzazioni si è evoluta negli anni sulla base della presenza, di uffici
fisici, di riunioni formali, di momenti di incontro e cerimoniali che in tre mesi sono stati spazzati
via. È un cambiamento profondo, e va gestito con la giusta cura.
Il rischio che si corre è di trasformarci in monadi orientate alla pura esecuzione di attività, isolate,
che non hanno il polso reale della qualità del lavoro svolto, con minori possibilità di crescita
individuale e di gruppo. Persone isolate che trasformano un angolo di casa in ufficio, che vivono
giornate tutte uguali.

È ovvio, e lo sostengo, che molti di questi aspetti erano poco funzionali, alcuni anche tossici.
Ma nella grande opportunità di cambiamento, di conversione, che questo evento storico
rappresenta per le nostre aziende c’è bisogno di una analisi approfondita, strutturale e creativa,
che ci porti a salvare quanto di buono c’é e può rimanere; al tempo stesso, è necessario
identificare e avere il coraggio di cambiare ciò che questa esperienza ci suggerisce come inutile,
obsoleto e ridondante.
È innegabile che – lo dice uno che negli ultimi due anni ha passato quaranta settimane all’anno in
viaggio di lavoro, la metà dei quali solo parzialmente efficaci – abbiamo la grande occasione di
scoprirci più efficienti. È altresì vero che vanno preservati aspetti del lavoro importanti come le

relazioni tra persone, lo scambio di conoscenze, la collaborazione e la condivisione e perché no, un
caffè tra una riunione e l’altra.
Grattiamo evidentemente solo la superficie di un argomento che non eravamo pronti ad
affrontare con gli strumenti adeguati, ma siamo senz’altro a un punto di non ritorno: sarà
fondamentale che i leader siano rapidi (competenti) e pragmatici nel riscrivere le regole, per
reagire velocemente con idee e metodi nuovi, e che tengano sempre al centro l’uomo.

Autore Matteo Caporale

Matteo Caporale
Nato a Pescara nel 1983, ha studiato ingegneria meccanica all’Università Politecnica delle Marche, laureandosi con una specializzazione in ingegneria termomeccanica. Nei primi due anni esercita la professione, occupandosi di sostenibilità (LEED), building commissioning e Project Management. L’interesse per questa disciplina lo porta a preferire un percorso aziendale all’interno di Aptar, dove ricopre il ruolo di PM per lo sviluppo prodotto dal 2011 al 2014. Approfondisce la disciplina attraverso il PMI – è PMP dal 2013 – e la perfeziona con un master in Management e Project Management alla London School of Business and Finance nel 2014. Lavora come Senior PM in Lego nel 2015 e nel 2016, dove si occupa di sviluppo nuovi prodotti. Dal 2016 al 2020 è Global PPM Director, di nuovo in Aptar. Da Agosto è Transformation Director in Brambles, Exec MBA candidate presso la SDA Bocconi.