L’articolo “Nei progetti finanziati in HE (e non solo) la Open Science come MUST: un’opportunità percepita come vincolo” ha generato alcuni commenti, anche privati.
Ho trovato particolarmente interessante un commento che riporto con il consenso dell’autore, Umberto Surricchio:
“L’approccio scientifico è di per sé aperto per sua natura dove il confronto e la contro-validazione da parte della comunità è proprio il fondamento della robustezza di ogni ricerca scientifica. L’offuscamento o l’incompletezza, volti al limitarne la comprensione da parte della platea più ampia, sono gli elementi che minano alla base la ragion d’essere della ricerca stessa come motore del progresso. Al contrario la caratteristica “open” (come dimostrato nel software) è una garanzia di robustezza (in modo contro intuitivo) e contemporaneamente di diffusione, positiva contaminazione e, conseguentemente, di arricchimento esponenziale di contenuti validabili da un’intera comunità.
Il paradigma di “rete,” unito alla possibilità di memorizzare in modo altamente fruibile per condividere documentazione sui procedimenti e sui dati, aumenta potentemente le occasioni di riuso e genera nuove idee o percorsi non visibili altrimenti.
Tutti questi elementi di comunicazione, collaborazione, coinvolgimento delle “parti interessate” (stakeholder), scambio di pratiche e dati e di esperienze (lesson learned) sono notoriamente presenti negli approcci e nella cultura del project management. Quindi tale cultura può dare molto aiuto alla ricerca scientifica per essere genuinamente aperta, come la sua natura imporrebbe”.
Parlando di ricerca occorre fare un passo indietro fino al titolo che attesta la capacità di poter/saper fare ricerca, ovvero il dottorato di ricerca; in inglese si chiama PhD e non è un caso. PhD sta per Philosopher Doctor che non sta solo a omaggiare la madre di tutte le discipline ma è, soprattutto, un ricordare che lo spirito della filosofia è la ricerca (in questo senso lo spirito della ricerca ha a che fare con la filosofia) in generale e che ogni ricerca particolare, in qualsiasi disciplina e in qualsiasi campo, deve continuare ad avere.
Con questa premessa, ricordo che nel 2000 fu registrata un’illuminante intervista al filosofo Remo Bodei, ospite presso il liceo classico “Aristofane” di Roma dal titolo: “A che serve allora la filosofia?”
Bodei rispondeva:
“A niente. Nel senso che bisogna intendersi su cosa significa servire. Se serve a qualche altra cosa di esterno, la filosofia non serve a niente; ma, nemmeno la salute, la vista, la musica di Mozart servono a qualcosa. La filosofia è il grande sforzo per orientarci nel mondo. Ciascuno di noi è un novellino. Arriva nel mondo senza sapere niente, e a tappe forzate deve sapersi orientare. La filosofia, quindi, serve sostanzialmente a comprendersi dentro l’orizzonte del mondo. Io direi non solo nell’orizzonte del proprio tempo, nel senso di Hegel, ma nell’orizzonte del passato che precede il nostro tempo e anche nell’apertura al futuro che lo presenta.
Certo, il nostro secolo o il secolo scorso, come diceva il filmato per l’occasione presentato, è un secolo già messo di fronte a eventi terribili, all’impensabile. Però la filosofia è la sfida testarda contro l’idea che esista qualcosa di impensabile. È lo sforzo di pensare.
La filosofia non ha i vantaggi che ha la religione, per cui ci sono delle verità rivelate, né i vantaggi della scienza che ha delle certezze. Sono duemilacinquecento anni che discutiamo sulle stesse cose, apparentemente senza senso. Ma pensate che cosa sarebbe il mondo se non ci fosse la filosofia, questo sforzo di capire. Saremmo preda delle verità rivelate in senso politico e biologico, dell’ignoranza, della mancanza di coscienza di sé. Quindi, sotto questo aspetto, la “filosofia serve”.
Come scrissi in un articolo del 2012:
“Parafrasando Bodei, possiamo ben dire che il project management sia lo sforzo di orientarsi nel progetto, di pensare l’impensabile e confrontarsi con esso. Come la filosofia, si muove nel campo dell’incertezza e del dubbio per meglio sforzarsi di capire”[3].
Sempre nel solito articolo aggiunsi:
“• entrambe comprendono molte altre discipline e soft skills;
- entrambe necessitano di una visione d’insieme dello stato dell’arte;
- entrambe servono a coordinare un qualcosa di unico e dall’esito incerto;
- entrambe ci insegnano a guardare con altri occhi o da diverse prospettive offrendoci vari punti di vista, opzioni, o strade differenti da percorrere a seconda delle situazioni;
- entrambe distinguono fra inganno (gioco di falsità) e illusione (gioco di verità e a supporto
della stessa). Ad esempio, nel project management la tecnica dell’Earned Value e/o i vari scenari What if ci permettono di approssimarci a una previsione della verità mediante lo strumento illusorio delle proiezioni;
- entrambe ci coinvolgono totalmente e pongono l’accento sull’autonomia del praticante;
- entrambe aspirano all’integrità del praticante e incoraggiano la ricerca della Verità condannando qualsiasi falsità nella comunicazione; non a caso s’insiste parecchio sull’etica e sulla responsabilità sociale e professionale del project manager;
entrambe pongono l’accento sulla comunicazione efficace (un project manager passa il 90% del suo tempo comunicando) e condannano la retorica”[1].
Abbiamo visto come dalla filosofia si possa traslare allo spirito della ricerca e, pertanto, traslare in punti di contatto con il project management che si sono rilevati e che ben si sposano con quelli del commento di Umberto Surricchio.
Anche questo articolo si colloca nella genuinità dell’apertura che entrambi i mondi ed entrambi gli approcci posseggono (o debbano possedere) e resta aperto all’arricchimento di altri commenti.
[1] (Per comodità dei lettori si cita in questo formato e non in maniera scientifica) Titolo Rivista: IL PROJECT MANAGER. Autrice dell’articolo: Stefania Lombardi. Anno di pubblicazione: 2012. Fascicolo: 11. Numero pagine: 3 P. 28-30 DOI: 10.3280/PM2012-011007
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