di Adelaide Raia e Matteo Rinaldi

Andare all’estero non basta: tra distribuzione, regole e culture diverse, a fare la differenza non è il piano, ma come lo si realizza

Ogni impresa che ambisce a diventare globale si trova davanti a una domanda cruciale: partire dal proprio mercato domestico per poi espandersi, oppure nascere fin da subito con un respiro internazionale? Alcuni brand – Netflix, Spotify, TikTok, Airbnb – sono stati progettati per attraversare i confini sin dal primo giorno. Altri – Ferrari, Starbucks, L’Oréal – hanno costruito credibilità a casa propria prima di esportare il successo. Ecco cosa tenere in considerazione prima di partire:

Il ruolo del Paese d’origine

La scelta può dipendere da come il Paese d’origine è percepito. Il “Made in Italy” in alimentare, moda e design è un potente asset. “Made in Germany” evoca ingegneria e precisione, “Made in France” lusso e raffinatezza. Ma non sempre l’etichetta nazionale è un vantaggio. In Africa, “Made in China” è sinonimo di innovazione e accessibilità; in Europa occidentale, invece, può ancora evocare scarsa qualità. In questi casi, è meglio non “gridare” le proprie origini ma presentarsi con un posizionamento universale.

La route to market

L’origine, però, è solo un pezzo del puzzle. Altrettanto decisivo è il percorso con cui il prodotto arriva al consumatore. Alcune categorie si prestano a una crescita immediata grazie all’e-commerce o a piattaforme globali; altre, invece, richiedono una costruzione più lenta, Paese per Paese. Nel pharma la differenza è evidente: integratori e vitamine possono essere distribuiti online a livello internazionale, mentre i farmaci da prescrizione dipendono ancora da grossisti e farmacie locali. Qui, senza reti solide e risorse consistenti, tentare un’espansione simultanea rischia di fallire.

Regolazione locale

Le normative possono accelerare o rallentare la strategia. Melatonina è un integratore da banco negli Stati Uniti ma richiede ricetta in gran parte d’Europa. Gli sciroppi con codeina sono legali in alcuni mercati e vietati in altri. Non solo pharma: Red Bull ha combattuto per anni restrizioni in Francia e Danimarca, mentre Uber è stata bloccata in diversi Paesi da leggi su trasporti e lavoro. Regole diverse impongono adattamenti non solo al prodotto, ma anche al naming e ai messaggi di marketing.

Cultura: il fattore decisivo

Infine la cultura, forse la variabile più difficile da decifrare. I dati di vendita raccontano cosa comprano i consumatori, ma non spiegano perché. Per capirlo servono ricerche etnografiche, osservazioni sul campo, metodologie centrate sulla domanda che rivelano “mercati nascosti” non visibili nelle classificazioni tradizionali.

Il pharma lo dimostra bene: in Italia i probiotici fanno parte della vita quotidiana; in Germania o UK sono percepiti come inutili salvo in abbinamento a un antibiotico. In quei contesti, medici e farmacisti fungono da traduttori culturali, legittimando abitudini nuove. Lo stesso vale in altri settori: in Giappone i distributori automatici sono canale primario per bevande e condom, in Europa no. Negli Stati Uniti le strisce sbiancanti per i denti sono cosmetici da supermercato; in Europa prodotti simili sono regolati come presidi odontoiatrici.

Conclusione

Non esiste una ricetta unica per l’internazionalizzazione. Alcuni marchi partono globali e poi consolidano partnership locali; altri crescono per cluster di Paesi con regole e abitudini simili. Ciò che conta è conoscere bene le leve del proprio settore: l’origine può essere un passaporto o un ostacolo; la route to market definisce il ritmo della crescita; la regolazione stabilisce i confini di ingresso; la cultura decide se i consumatori apriranno davvero le porte al brand.

La verità è che la maggior parte delle strategie non fallisce in fase di pianificazione, ma nell’esecuzione. Una campagna brillante può crollare se il prodotto è mal distribuito o non connesso alle abitudini locali. Soprattutto nel settore health care, l’esecuzione impeccabile fa la differenza tra successo e insuccesso.

Espandersi all’estero non significa copiare e incollare. Significa bilanciare: mantenere universale lo scopo del brand, adattando al contesto locale il modo in cui si presenta. I marchi vincenti non urlano un messaggio al mondo intero: ascoltano, si adattano e sussurrano in ogni lingua.

Gli autori

Adelaide Raia, General Manager Iberia, di Reckitt Benckiser

Matteo Rinaldi, co-fondatore di Human Centric Group e Adjunct Professor alla LUISS Business School.

Link al mio profilo linkedin

 

Leggi tutti gli articoli su Management Talks