di Venera Monaco

Sentiamo molto spesso parlare di complessità, di progetti complessi, situazione complessa, business complesso, ognuno di noi può sicuramente affermare che nella propria vita privata o lavorativa ha dovuto gestire situazioni complesse. Ma cosa vuol dire complesso? E’ possibile definire in modo oggettivo se una situazione è complessa oppure no?

Complessità e non linearità

[1] In generale un problema è lineare se lo si può scomporre in un insieme di sotto-problemi indipendenti tra loro. Quando, invece, i vari componenti/aspetti di un problema interagiscono gli uni con gli altri così da renderne impossibile la separazione per risolvere il problema passo-passo e “a blocchi”, allora si parla di non-linearità. Un sistema complesso è un sistema composto da diverse componenti o sottosistemi che possono interagire tra loro (ad es. tramite retroazioni). I sistemi complessi vengono studiati tipicamente attraverso metodologie di indagine di tipo “olistico“. Maggiore è la quantità e la varietà delle relazioni fra gli elementi di un sistema, maggiore è la sua complessità; a condizione che le relazioni fra gli elementi siano di tipo non-lineare. Un’altra caratteristica di un sistema complesso è che può produrre un comportamento emergente, cioè un comportamento complesso non prevedibile e non desumibile dalla semplice sommatoria degli elementi che compongono il sistema.

Possiamo quindi riconoscere la complessità dai due fattori: grande varietà di relazioni e comportamento non lineare.

Una formula matematica che ci fa comprendere facilmente l’influenza delle relazioni nei contesti complessi (per esempio i progetti) è la formula usata per il calcolo dei canali di comunicazione:

C = N*(N-1)/2

C = numero di canali di comunicazione

N = numero di stakeholders (o membri di un team nel caso di un progetto)

Se abbiamo un contesto in cui interagiscono 12 persone il numero di canali di comunicazione è 66, più di sei  volte più grande.  Quello che questa formula ci dice innanzitutto è che, al di là di una definizione basata su giudizi soggettivi, la complessità può essere identificata in modo oggettivo.

Quando si parla di organizzazioni e di progetti la complessità può essere caratterizzata da una serie di fattori:

Il fattore umano nella complessità

Il primo lo abbiamo appena visto: il numero di persone (stakeholders) che interagiscono nel contesto e quindi il numero di canali di comunicazione; Il fattore umano, come spesso siamo abituati a chiamarlo, è la sfida più grande di ogni manager. Saper ottenere il meglio dalle persone e dalla loro interazione (team) è indice di una grande capacità manageriale.

Il fattore economico nella complessità

Un altro aspetto è la grandezza economica, costruire una palazzina di tre piani è meno complesso che costruire un campus universitario, un progetto da 1 Ml€ è meno complesso di un progetto da 500 Ml€. Quando gestiamo progetti con budget così grandi l’esposizione al rischio è superiore, corriamo il rischio di perdere più soldi e se è vero che la sostenibilità economica non può essere misurata con un solo numero è pur vero che l’1% di 1Ml€ è 10 k€, e l’1% di 500 Ml€ sono 5 Ml€… insostenibili quasi per chiunque.

La geografia

Anche la geografia delle organizzazioni è un altro fattore che prendiamo in considerazione quando valutiamo la complessità. Lavorare in team è una sfida, occorre preparazione e capacità organizzative, ma lo sarà ancora di più se i membri del team risiedono in paesi diversi, se si incontrano di persona molto poco e se gli unici canali di comunicazione sono quelli virtuali. Parlare lingue diverse, comunicare in una lingua che non è la propria per nessuno, fa perdere sfumature, autenticità e crea incomprensioni che portano a grovigli e complicazioni.

L’importanza di essere SMART

L’elenco dei fattori di complessità potrebbe essere ancora molta lungo, ne cito ancora uno che, secondo me, è molto ricorrente e spesso crea frustrazione soprattutto per chi lavora nell’ambito delle tecnologie: la mancanza di requisiti chiari, definiti e precisi, misurabili o come spesso li definiamo: SMART (specific, misurable, achivable, realistic, time-framed).

Chi lavora nei progetti, soprattutto in quelli più complessi sa bene che alla linea di partenza quasi mai tutti i requisiti sono stabili e congelati ma evolvono con la maturità del progetto e la prima difficoltà (complessità) è proprio quella di individuare queste aree di incertezza, che nelle fasi iniziali di un progetto sono anche difficilmente visibili.

E l’agilità? Semplifica o complica?

Da quando si parla di complessità si parla ancora di più di agilità, come della capacità di districarsi in modo semplice in contesti poco chiari, poco definiti e non per forza congelati e rigidamente strutturati come ipotizzano alcuni modelli di gestione (whaterfall). L’Agilità è davvero la soluzione per gestire la complessità? O è forse un modo per sopravvivere in contesti che evolvono velocemente, per congelare ciò che definito, anche poco, e essere aperti (pronti, disponibili, adattabili) a modificare ciò che non è fisso?

Combattere o adattarsi alla complessità?

L’agilità non combatte la complessità, non la semplifica ad ogni costo, tentando di “ingabbiarla” con ipotesi non realistiche. La complessità non si può ridurre con l’approccio “divide et impera” proprio per sua natura, altrimenti sarebbe solamente “complicato”! Invece paradossalmente la complessità va seguita e abbracciata. Ci si deve munire di una grande “capacità di adattamento continuo“, anche estremo. Si deve essere aperti ad approcci “controintuitivi” ed “innovativi”, proprio per poter non cadere nella trappola illusoria che la complessità sia “riducibile”. In estrema sintesi lo spirito dell’approccio Agile è di cercare di facilitare il continuo adattamento. In tal modo si può riuscire a capire al più presto possibile quando è il momento di cambiare di nuovo il comportamento per poter seguire al meglio il cambiamento del contesto (che è indotto inesorabilmente dalla sua complessità).

Come scrive Ugo Di Giammateo nel suo articolo [3] “Complessità e progetti europei” pubblicato per Management Talks a maggio di quest’anno, gestire la complessità è come suonare il Jazz “L’improvvisazione jazzistica è il paradigma della applicazione flessibile delle regole. Un assolo è composto dallo strumentista al momento dell’esecuzione ma segue sempre delle regole: quelle dell’armonia, del ritmo e soprattutto dell’interazione continua con gli altri musicisti (e col pubblico). Inoltre il musicista ben preparato ha nella sua “cassetta degli attrezzi” decine di schemi, di frasi pre-composte e deve essere capace di metterle insieme secondo il proprio gusto e la propria sensibilità”

E allora come fare?

Quali competenze servono per gestire la complessità?

Come capire se ci troviamo davanti ad una situazione complessa oppure no?  Il primo passo è riconoscerla, distinguere e isolare le aree di non linearità.

Governare la complessità, vuol dire prima di tutto avere una adeguata conoscenza e consapevolezza della situazione. Conoscenza e consapevolezza sono due fattori determinanti per muoversi a proprio agio in contesti complessi.

Conoscere e riconoscere la complessità è una fase molto interessante della gestione della complessità e più ci saremo dotati di strumenti organizzativi per riconoscerla più saremo salvi da personalismi, da chi pensa che la situazione non sia poi così complessa e da chi la trova assolutamente non gestibile. Ridurre al minimo il giudizio personale è un primo passo importante.

Single Point Of Accountability (SPOA)

L’accountability è l’altra via per dirimere la complessità: la confusione nei ruoli e nelle responsabilità è uno degli elementi scatenanti la complessità. Progetti semplici si trasformano in grovigli se ruoli e responsabilità non sono chiaramente definite. Avere una chiara “accountability” (cioè la responsabilità di portare a casa il risultato), è uno dei fattori più importanti nel dirimere la complessità di un progetto. [2] Il CEO di Compass, in un articolo pubblicato per Harward Business Review, spiega molto bene come un Single Point Of Accountability (SPOA) sia un elemento determinante per portare a casa i risultati di progetti complessi nei tempi previsti. Un solo e singolo responsabile!

Le tecniche tradizionali

Le tecniche di gestione dei progetti, anche quelle tutto sommato abbastanza tradizionali possono essere utilizzate per far fronte alla complessità. Immaginiamo un progetto con una WBS complessa (più di due livelli, centinaia di attività e numerosi cammini con molti collegamenti (input – output) tra WP). Il sistema “progetto” assume una forma “non lineare” con “grande varietà di relazioni”. Quanto ci sarà utile il metodo del cammino critico per isolare le attività su cui dovremo concentrare la nostra attenzione? Quali rischi saranno più importanti se non quelli che impattano le attività sui cammini critici (o quasi critici)?

Bibliografia & Linkografia

Venera Monaco

Autrice di Management Talks

Ingegnere elettronico, laureata presso l’Università degli Studi di Palermo, lavora in Thales Alenia Space dove ricopre l’incarico di Project Portfolio Manager per il centro di competenza elettronica. Ha gestito numerosi programmi complessi nel settore difesa e spazio e ha lavorato per varie divisioni del gruppo Thales (radio, reti e satelliti). Membro di PMI® dal 2012, è stata eletta Direttore dei Volontari del PMI® Central Italy Chapter per gli anni 2019-2020 e direttore del Branch Abruzzo del PMI® Central Italy Chapter per gli anni 2016-2018. È docente di Project Management in Thales Learning Hub, in Master Universitari e corsi di formazione organizzati dal Chapter presso le Università, è inoltre segretario della Commissione di Project Management dell’Ordine degli Ingegneri della provincia di Pescara.  Certificata PMP®, IPMA Lev B® e UNI 11648,  ha un Master in Europrogettazione ed è co-autrice di “Project management e progetti europei, sinergie, buone pratiche, esperienze” edito da FrancoAngeli.